Sant’Agata

Ogni specialità medica ha  un suo Santo protettore. Spesso si tratta di martiri che, per la modalità della testimonianza (martire in greco significa testimone) resa, può, per analogia o traslato, venire collegato ad un organo, un apparato, una malattia, che a loro volta diventeranno competenza di una specialità medica o di un’attività multidisciplinare. Spesso la ricorrenza viene ricordata anche con il consumo di un cibo rituale, quasi sempre un dolce, che verrà consumato assieme ai propri familiari o amici per riconfermare e rinsaldare le comuni radici culturali e religiose.

          Curiosità, aneddoti fanno talvolta da corollario alla biografia, spesso romanzata e/o infarcita di riferimenti mitologici. In questa serie di articoli ci occuperemo di passare in rassegna i santi protettori più famosi o quelli più curiosi, soffermandoci sugli aspetti gastronomici, se presenti, e sull’iconografia, che quasi sempre illustra, con scopi didattici ed educativi, gli episodi più salienti della loro vicenda umana. Immagini che necessariamente sostituiscono la scrittura, per molti secoli patrimonio soltanto di una ristretta aristocrazia culturale.
          Ci sia consentito iniziare questo percorso partendo dai santi patroni siciliani o che comunque sono legati alla terra e alla devozione siciliane.
SANT’AGATA
Tanti sono i misteri che circondano la Santuzza di Catania.
La Piccola Santa, questo significa appunto Santuzza, era nativa di Catania (l’antica Katanè, che secondo lo storico greco Plutarco, deriverebbe da katane -cioè grattugia – per le asperità del territorio lavico su cui sorge; secondo altre interpretazioni, il nome deriverebbe dall’apposizione del prefisso greco katà- al nome del vulcano Etna, Aitnè, in modo che ne risulti “nei pressi dell’Etna” o “ai piedi dell’Etna”).
Nata forse a Catania. Forse perché, secondo altri, la santa sarebbe originaria di Palermo. Nata a Catania. Forse. Perché, secondo altri, la santa sarebbe, invece, originaria di Palermo e, in effetti, lei è una delle quattro sante protettrici della Città Felicissima, caput regni et sedis regis della Sicilia (santa Rosalia verrà dopo). La sua statua, assieme a quelle di santa Cristina, santa Ninfa, sant’Oliva, nell’ordine superiore delle facciate della piazza, troneggia dall’alto dei Quattro Canti di Città. I quattro cantoni, ai vertici dei quattro mandamenti in cui la città era così suddivisa, presentano, in ordine di altezza, le quattro fontane in marmo di Carrara a rappresentare le stagioni, i quattro re, e in cima, appunto, le quattro sante. È questo il centro nevralgico della città, all’incrocio tra l’antico decumano fenicio (il Cassaro – dal nome arabo al Qasr la fortificata -, l’attuale via Vittorio Emanuele e il vecchio cardo romano, l’attuale via Maqueda, leggasi Makeda), dove si amministrava la giustizia con impiccagioni, squartamenti, ecc. e che era anche il luogo deputato all’ostentazione del lusso più sfrenato da parte della nobiltà isolana, solita muoversi su carrozze d’oro, da cui spuntavano stalattiti e stalagmiti di putti, angeli, arme nobiliari ed altri orpelli barocchi, vere e proprie sfarzose cappelle sistine dipinte; forse dall’abitudine di dipingere e superfetare queste carrozze deriverà l’uso di dipingere le storie dei paladini di Francia sui carretti siciliani.
La querelle sui natali della Santuzza oggi sembra sopita, ma non è del tutto spenta, rinfocolata com’è dall’antica ruggine che continua a persistere tra le due città, così differenti, ma in fondo così simili.
Anche sul significato del nome abbiamo qualche perplessità. Per alcuni deriverebbe da agios (santo) e theos (dio), col significato dunque di “Dio santo”  forse per assimilazione con la greca Agathé Thea, la Bona Dea latina, adorata ad Enna come dea della fecondità, ma forse, più semplicemente, anche “santa di Dio”; per altri ancora l’etimo deriverebbe da senza (l’alfa privativa) geos, terra, e theos, dio, cioè “dea senza terra”, nell’accezione di santa non legata alle cose terrene.
          Iacopo da Varagine (l’odierna Varazze), nella sua Legenda aurea, propende per quest’ultima etimologia (a geos theos), in quanto fa dire alla Santa, in risposta alle minacce di Quintiano (o Quinziano), «la mia mente poggia sulla viva roccia e ha le sue fondamenta in Cristo; le vostre parole sono vento, le vostre promesse pioggia, le vostre minacce fiumi: per quanto infieriscano le fondamenta non cedono, la mia casa non potrà cadere», rifacendosi evidentemente alla parabola della casa del giusto costruita sulla viva roccia, al contrario di quella costruita sulla sabbia dallo stolto (Matteo 7,24-27).
          Anche sulle modalità del martirio abbiamo pareri diversi: le vennero strappate entrambe le mammelle od una sola? Secondo Antonino Mongitore (1663-1743), autore dell’ineffabile La Siciliaricercata nelle cose più memorabili, le venne recisa una sola ghiandola mammaria, «muove il dubbio il padre Gaetano e ben crede, che una sola le fosse recisa, e una sola le ne fosse dal S. Apostolo restituita, come scrivono concordemente gli antichi Atti latini, come greci del suo martirio» e poi prosegue con una sfilza di dotte citazioni, la più notevole sembra essere «ei mammilla abscinditur» tratta dal Breviario Romano, per concludere «ma o sia stata una, o amendue, fu eroica la costanza della Santa Amazzone».
Il Mongitore descrive poi l’arrivo nel 1126 delle reliquie trafugate dalla città di Catania dal generale bizantino Maniace, ben 86 anni prima, e riportate da Costantinopoli in Italia dapprima presso Taranto o Gallipoli. Narra che inavvertitamente cadesse a terra una mammella della santa e che fosse messa subito in bocca da una bambina. La santa allora apparve alla madre, «si svegliò la donna, e ritrovò la figlia attaccata alla mammella della Santa, senza potersela distaccar dalla bocca», dopo tanti vani tentativi, questa venne distaccata dalla bocca della bambina e «in oggi si venera in Gallipoli». Anche alla messinese santa Flavia, sorella di san Placido, vennero strappate le mammelle «ma da un angelo le furon restituite».
          Nomen omen, il Mongitore prosegue nel suo libro con la descrizione di numerosi altri prodigi, o comunque fatti mirabili, riguardanti questo apparato avvenuti sia a donne e sia a uomini, barbuti e non. Anche per Iacopo da Varagine, le venne torturata ed asportata una sola mammella. Il governatore romano di Catania, Quinziano, di lei invaghitosi ma sprezzantemente respinto, «si infuriò e le fece a lungo torcere una mammella, e poi gliela fece tagliare». Sentiamo cosa fa dire alla santa martire, dopo così gratuita e barbara violenza: «Empio, crudele, spietato tiranno, non provi tu vergogna a straziar in una donna ciò che tu stesso hai succhiato da tua madre? Le mammelle della mia anima sono intatte e da queste nutro tutti i miei sentimenti, che già dalla mia infanzia ho consacrato a Dio». I fatti narrati si svolgono sotto l’impero di Decio, prefetto Quintiano, il quale dapprima la mandò in un postribolo, dove conservò miracolosamente integra la sua virtù (in questo ricorda la vicenda di sant’Agnese), per poi farla incarcerare e, infine, sottoporla a prolungata tortura.
Al suo nuovo rifiuto, legata a testa in giù, le vennero, secondo alcuni, recisi entrambi i seni. Nella notte le apparve in carcere san Pietro che la sanò.  In ogni caso, nell’iconologia sacra, viene sempre rappresentata o con la palma del martirio, o con una tenaglia (in un quadro esposto nel museo degli Eremitari di Padova, con entrambi i segni) o con un vassoio con le due mammelle. Quest’ultima immagine richiama la sua paredra santa Lucia, che al posto delle due ghiandole, presenta i bulbi oculari. Viene raffigurata anche con il corno del liocorno (simbolo della verginità conservata nonostante fosse stata inizialmente rinchiusa in un lupanare) o con una candela accesa in mano (per ricordare l’Etna e il fuoco dei carboni ardenti su cui fu costretta a camminare). Molti pittori l’hanno ritratta nell’atto del martirio; il più famoso quadro, e forse anche il più truculento, è quello di Sebastiano del Piombo (1485-1547).
Lucia richiama il precoce culto alla santa etnea, in quanto si recò presso la sua tomba, in compagnia della madre che soffriva di gravi emorragie uterine per chiederne alla martire la guarigione. Si narra che Lucia, caduta per la stanchezza (la strada da Siracusa venne percorsa a piedi in segno di devozione) in un profondo sonno, venisse redarguita da sant’Agata con un «Vieni da me a chiedere quello che tu stessa puoi dare a tua madre?». Svegliatasi trovò la madre completamente guarita. Questo miracolo ricorda quello analogo descritto nei vangeli di Marco  (5,26) e Luca (8,43-48). Non sappiamo se questo fatto sia attendibile o meno, ma sicuramente sta a significare che il culto delle due sante ebbe fin da subito uno stretto legame affettivo, da parte dei cristiani di queste due importanti città della Sicilia orientale, stabilendo una specie di “gemellaggio” cultuale ante litteram.
          Altro aspetto non trascurabile sta nel fatto che, per traslato, le mammelle hanno assunto una valenza simbolica per tutti gli organi legati alla fecondità femminile. Ancora oggi, per una forma di pudore, gli ex voto, riguardanti la guarigione di malattie ginecologiche, assumono la forma dell’addome o quella, metonimica, della mammella. Sant’Agata protettrice della donna, dunque, nella sua interezza, in quanto quest’organo rappresenta la femminilità in toto, dato che la sessualità viene percepita come funzionale alla maternità e la mammella (come afferma anche la Santuzza a Quinziano) rappresenta soprattutto una forma di prolungamento della gestazione extracorporea.
 Sant’Agata diviene così la naturale ed ovvia protettrice delle balie, delle nutrici, degli infermieri ed è invocata contro le malattie delle mammelle (mancanza di latte soprattutto) e, per traslato, contro tutte le malattie dell’apparato genitale femminile (come abbiamo visto con la madre di santa Lucia) e contro la sterilità (Dea Bona?) e, paradossalmente, anche dei fonditori di campane (per il loro aspetto, le campane richiamano la forma delle mammelle e/o per la colata del bronzo che ricorda le eruzioni dell’Etna).
          Viene festeggiata a Catania in due occasioni il 5 febbraio, con un ciclo di festeggiamenti che durano quasi un’intera settimana e il 17 agosto, ricorrenza del ritorno in città delle sue reliquie che erano state trafugate,come già sappiamo, dai bizantini.
          Si è molto discusso di questi festeggiamenti, dei riti e della tipica casacca indossata dai portatori del fercolo della santa. Il grecista Emanuele Ciaceri (1905) ha intravisto in questi festeggiamenti, sopravvivenze di moduli isiaci (la scesa alla marina – il corteo con la santa che veniva portata in riva al mare – richiamerebbe il navigum, descritto da Apuleio nell’Asino d’oro).
          Un’usanza particolare, che ricorda un costume diffuso durante i festeggiamenti di Demetra, è quello delle ntuppateddi, dal nome delle chiocciole estive racchiuse da un opercolo protettivo. Le donne, in un periodo in cui non era ancora loro permesso di uscire specie la notte da sole, col volto velato (ntuppate, appunto) andavano in giro per la città, accettando dolci e regali dagli occasionali corteggiatori. Una volta degenerata l’usanza, nell’Ottocento venne abolita. Ma, a complicare le cose, i tuppateddi, le chiocciole chiuse dall’opercolo,  vengono consumate – saltate in padella con aglio e prezzemolo – durante il festino di santa Rosalia e nessun palermitano oserebbe mai di far peccato d’omissione…
Come per tutte le buone tradizioni festaiole siciliane, non si può trascurare di parlare dei cibi rituali legati alla Santa: dai pani a forma di mammelle (a Castelvetrano, TP), le minne di santAgata, alle piccole cassate fatte con pan di Spagna imbevuto di rosolio con ripieno di ricotta in cui sono mescolati piccoli frammenti di cioccolato amaro e canditi, ricoperte dalla glassa bianca e a mo’ di capezzolo una bella amarena o una ciliegia candita (insomma la classica cassata siciliana, di origine araba, in miniatura). Anche questo dolce prende il nome di minne di sant’Agata o anche del vezzeggiativo minnuzzi ri sant’Àjita. Questo stesso dolce viene prodotto e venduto dalle suore di clausura di tutti i conventi siciliani, ma col generico nome di minne delle vergini. «Di queste don Fabrizio si fece dare, e tenendole sul piatto, sembrava una profana caricatura di sant’Agata, esibente i propri seni recisi. Come mai il Sant’Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I trionfi della gola (la gola, peccato mortale!) le mammelle di sant’Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli. Mah!». Parola del principe di Salina, il protagonista de Il Gattopardo, di cui proprio quest’anno si celebra il cinquantenario della pubblicazione.
Altro dolce caratteristico sono le cosiddette olivette di sant’Agata, piccole olive di pasta reale (mandorle sgusciate e macinate e impastate con lo zucchero). Quest’ultimo dolce viene preparato perché sembra che la santa trovasse riparo dai soldati sguinzagliati da Quintiano sotto un albero di ulivo, spuntato all’improvviso per lei.
Il culto di sant’Agata è diffuso in tutto il mondo e molte sono le città che ospitano chiese a lei dedicate e che la ricordano con feste e processioni. Culti non necessariamente mantenuti vivi da oriundi catanesi. Spero che i Colleghi ginecologi, oncologi, chirurghi, ecc. l’adottino come loro protettrice: chissà, da lassù proverà a dare conforto a quanti a lei si rivolgono con fiducia e speranza e questo già aiuta il potere di guarigione che sta racchiuso in ciascuno di noi.
Antonio Patti
Giuseppina Torregrossa, Il conto delle minne, Mondadori, Milano 2009 pp. 318 € 18,50
Nonna Agata, di origini etnee, insegna alla nipote Agatina, futura ginecologa, cresciuta invece a Palermo, il segreto della preparazione delle famose cassatine conosciute come Minne di sant’Agata. Nel passarle il dolce testimone le impartisce l’insegnamento più importante: quello di come affrontare la vita.
 Un romanzo di formazione tra le soavità della lingua italiana e lo speziato della koinè che è la parlata siciliana, tra il dolceamaro della vita e il vellutato delle illusioni infantili con l’acre retrogusto della vita adulta, tra il delicato sapore dell’ironia e quello più pungente del sarcasmo. Una vicenda vista con gli occhi di una donna che guarda disincantata dapprima il mondo degli adulti e poi quello degli uomini, in una Sicilia che, tra mille contraddizioni, stenta a trasformarsi davvero, avendo per sfondo il sacco di Palermo.
          Tra le numerose amarezze, tra i tanti sacrifici e molti sorrisi, spesso ipocriti, spiccano soltanto loro: le minne delle vergini con la loro glassa e il loro prorompente capezzolo di marasca candita; dalla «consistenza soffice ed elastica, da poterci affondare le dita come in una minna sfiacitusa»: «Appena le addentavo la crema di ricotta, zucchero e cioccolato riempiva ogni angolo della mia bocca, la sentivo spalmarsi sul palato; chiudevo gli occhi e il piacere si spandeva per tutto il corpo di bambina e si mischiava a una sensazione di protezione e fiducia, perché secondo le convinzioni della nonna la cassatella mi avrebbe tenuto lontana dalle malattie e, nel caso più sfortunato, mi avrebbe fatta certamente guarire.»
          Il potere di guarigione affidato ad un ex voto voluttuoso, da assaporare con profonda venerazione. Come aveva ragione il principe Salina!